venerdì 26 febbraio 2010

La vigilia del soldato (ovvero,storie di zeppole e di tiri mancini)

 Il 24 dicembre del 1954 avevo poco più di undici anni. Era un mercoledì, o forse un giovedì, perché era giorno di mercato, ed era una bellissima giornata di sole tiepido come solo in Calabria si può avere alla vigilia di Natale. Nell’aria il profumo delle zeppole fritte con l’acciuga solleticava le narici e metteva allegria perché in ogni casa si stava preparando il cenone della vigilia. Le zeppole erano una delle tredici cose che dovevano essere portate in tavola. Tredici, non una di meno, non una di più. Secondo la radio ed il “Vittorioso” quello doveva essere tempo di gelo e neve. Anche nel mio libro di lettura, o forse nel sussidiario, le figure rappresentavano abeti imbiancati, bufere di neve e personaggi ammantati con pelli di pecora. Io, però, quella mattina ero andato all’oratorio in maniche di camicia ma, per la verità, mia madre mi aveva rincorso per darmi una giacchettina di lana grigia. Ero corso via senza la giacca perché non mi piaceva, ma anche perché non volevo fare tardi per la consegna del distintivo dell’Azione Cattolica. Nonostante la fretta, però, avevo fatto in tempo a fare un salto in cucina per afferrare la zeppola più grossa, appena tolta dalla padella. Mia nonna protestò perché diceva che mangiandole prima, l’olio della padella sarebbe evaporato più velocemente e provò inutilmente a riprendersela. Scappai via, ma riuscìì a sentire che ero il bambino più “scomunicato” del paese. Per “scomunicato” la nonna intendeva fortunatamente soltanto “monello” e nulla più. Poco male, pensai correndo con la bocca piena.All’oratorio arrivai in tempo per l’appello. La saletta attigua alla chiesa era stracolma di aspiranti “Soldati di Cristo”. Don Giuseppe, paramenti sacri delle funzioni solenni, era in piedi dietro un tavolo con la tovaglia bianca dell’altare. Alla sua destra c’era il Presidente provinciale dell’Azione Cattolica con un cesto colmo di distintivi e di tessere nominative. Alla sua sinistra, il sacrestano con l’acqua santa e l’aspersorio per la benedizione del cesto. Noi ragazzi eravamo una ventina schierati, petto in fuori, a ridosso della parete semicircolare. L’ora fatidica stava per scoccare. Erano giorni, settimane, che ci preparavamo all’appuntamento ed avevamo i cuori colmi di orgoglio perché stavamo per entrare nelle “Legioni di Cristo” per la difesa della Fede. Io fremevo e non vedevo l’ora di vestire la “divisa”, come veniva chiamato il distintivo. Ero pronto a versare il mio sangue fino all’ultima goccia per la difesa della fede, come aveva chiesto il Professor Gedda, il Presidente Nazionale, nel suo messaggio ai nuovi soldati di Cristo. Se lo diceva lui che aveva fondato i Comitati Civici e, per giunta, era anche un grande genetista esperto di gravidanze e parti gemellari (però l’una e l’altra cosa non sapevo cosa c’entrassero), dovevo proprio votarmi al sacrificio estremo. Del resto, l’inno che Don Giuseppe ci aveva insegnato per l’occasione parlava chiaro:siamo arditi della fede,


siamo arditi della croce

Al tuo cenno e alla tua voce

un esercito all'altar

un esercito all'altar Partì il canto. Tutti ci irrigidimmo sull’attenti, petto in fuori ed occhi ardenti, ed io mi sentii investito da responsabilità decisive perché stavamo scrivendo la Storia. A confronto con ciò che avremmo fatto noi, le Crociate per la liberazione del Santo Sepolcro erano state allegre scampagnate fuori porta.Alle dodici e dieci, per la sala si diffuse inspiegabilmente un irresistibile ed irriguardoso odore di zeppole. Da quel momento la cerimonia subì un’ evidente accelerazione e alle dodici e mezza era tutto finito. Sulla via del ritorno ero letteralmente galvanizzato. Attorno a me vedevo solo nemici della Fede e pensavo a come armarmi. Mi venne in mente che Don Giuseppe ed il presidente avevano dimenticato di dirci con quali armi avremmo dovuto combattere, ma conclusi che forse lo avrebbero fatto con una circolare di lì a breve. Ovvio: una cosa così importante andava stabilita per iscritto.Entrai in casa con la fierezza di Riccardo Cuor di Leone e buttai uno sguardo disgustato su quelle donnicciole intente a friggere, impastare, tritare, infarinare, sbattere uova, decorare. Che insulse attività! La Fede chiamava e loro, le miserabili, cuocevano il baccalà! Avessi già avuto la spada, avrei dato io una bella lezione a mia madre, a mia nonna e a mia zia che invece di lucidare le armi, strofinavano pentole e padelle.Quella che più mi irritava era mia nonna che aveva pure tentato di riappropriarsi della zeppola. Aveva finito di friggere le zeppole che aveva nascosto chissà dove e stava armeggiando attorno al fuoco con due grossi capponi. Cosa faceva l’infedele? China in avanti con la testa quasi sulla fiamma, stava bruciacchiando le superstiti piume attorno alle zampe e attorno al collo del gallinaceo che poco prima aveva spennato a dovere, previa adeguata immersione in acqua bollente. Dietro di lei, una sgangherata sedia impagliata sulla quale si sedeva di tanto in tanto per riposarsi dalla scomoda posizione. Natale o no, la vecchia doveva essere punita perché era lei la responsabile di quel trambusto che aveva distolto tutti dall’attenzione al fatidico evento della mia consacrazione a “Soldato di Cristo”. Ero, dunque, un soldato ed il soldato è uomo d’azione. La nonna era lì e dovevo passare all’azione. L’occasione era buona per saggiare il coraggio e la determinazione. E se al posto della nonna ci fosse stato un nemico della Fede? Pancrazio e Tarcisio, i santi martiri cristiani, che avrebbero fatto? Non ebbi dubbi ed, anzi, immaginai che fossero loro a spronarmi. Nonna Carmela era buona come il pane ed io, il nipote “scomunicato”, ero il suo prediletto. La riconoscenza, però, non è di questo mondo e quando arriva l’ora fatale, non ci può essere affetto che tenga.Il primo pollo era già stato sistemato e del secondo restavano solo le penne del collo e quelle delle punte delle ali, le più dure. Finite le ali, prima di passare al collo, la nonna certamente si sarebbe seduta nuovamente per riposarsi. Il movimento era sempre lo stesso e non c’era bisogno di girarsi per accertarsi che la sedia fosse al suo posto perché, tra l’altro, la poteva sentire sfiorandola col sedere o con le gambe.Mia madre si era allontanata per pulire i broccoletti siciliani per la pizza rustica, mia zia era andata dalla sorella a farsi prestare altre sei uova, dopo le trentasei avute la sera prima, mio nonno e mio padre ancora non erano tornati dal mercato, dei miei fratelli non c’era traccia nei dintorni, dunque nella grande cucina affumicata c’eravamo solo la nonna ed io.Senza il minimo rumore, col passo della lepre sulla neve, mi avvicinai, tolsi la sedia e altrettanto silenziosamente schizzai via dalla cucina. Il tempo di arrivare nell’altra stanza ed un lacerante urlo di dolore si udì a trecento metri di distanza.Accorse tutto il parentado ed il vicinato e la nonna fu portata a fatica sul suo letto.A chi le chiedeva come avesse fatto a non rendersi conto che la sedia non c’era, rispondeva che si era spostata di lato senza accorgersene.Quella sera il cenone fu piuttosto triste ed io mi sentivo il responsabile di quel mortorio.Al momento delle zeppole l’eccitazione del Soldato mi era passata completamente. Ne presi una calda calda e la portai alla nonna. Tutti annuirono compiaciuti e un po’sorpresi, ma nessuno fece commenti. Mi avvicinai al letto con gli occhi pieni di lacrime. La nonna si girò lentamente con una smorfia di dolore e non si stupì di vedermi. Non dimenticherò mai lo sguardo tenerissimo che mi diede ed il dito sulla bocca serrata per assicurarmi che non avrebbe fatto la spia.

Buon Natale nonna,ovunque tu sia



Enzo Movilia

2 commenti:

  1. Questo bel racconto ci è stato inviato dal nostro amico Enzo che non è presente su fb ,ma ha voluto comunque dare un suo contributo al gruppo.
    Grazie di cuore,Enzo

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  2. Ricordo anch' io quel canto un po' militaresco... si vede che siamo della stessa epoca!! Grazie Enzo!

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