domenica 14 marzo 2010

NONNA ADELE (Di M.Antonietta -Fiordistella)

NONNA ADELE




Quand'ero piccola, avevo una vita sociale francamente penosa.

Ero figlia unica ( lo sarei rimasta fino a sei anni compiuti), non andavo all'asilo perchè sembrava brutto lasciare una bambina in balia di estranei per tot ore al giorno e, in aggiunta, avevo un innato pessimo carattere che mi rendeva scorbutica e selettiva negli approcci d'amicizia. Dunque, gli svaghi erano occasionali, riservati alla domenica pomeriggio, e condivisi rigorosamente con mamma e papà. A volte si andava al cinema, a volte dalle zie e dai cuginetti, a volte si faceva qualche gita in auto. Un appuntamento era fisso: una volta al mese, in bicicletta, si andava al cimitero a visitare i cari estinti. Un colpo di vita eccitantissimo.

Io avevo due nonni e una nonna: dunque, da un rapido calcolo, appariva chiaro che mi mancava una nonna. Mi mancava, infatti, la nonna Adele, la mamma della mamma.

La visita alla tomba della nonna materna, scomparsa prima che io nascessi, mi proponeva la riflessione sul tema della morte. Ma di quali strumenti dispone un bambino di cinque ani per comprenderne il significato? Mi sentivo ripetere che la nonna aveva tanto desiderato una nipotina, e che mi aveva amato ancor prima di sapere che sarei nata. Ma i conti non tornavano. Se tutto ciò era vero, perchè la nonna non mi aveva aspettato? Bugiarda. E bugiarda anche la mamma, che si ostinava a ripetermi parole alle quali non potevo credere. I ragionamenti di un bambino sono rudimentali, dominati da irragionevole egocentrismo e intrisi di una sorta di delirio di onnipotenza. Basta non voler morire, per non morire: che ci vuole? E poi la fotografia della nonna, sulla lapide, mi rimandava l'immagine di una donna ancora giovane, bella e sorridente, e un bambino pensa che le persone decidano di scomparire, per pudore, quando iniziano ad avvizzire lievemente, tendendo alla mela rugosa. Dunque, la nonna era doppiamente colpevole: di essere morta anzitempo, senza riflettere su ciò che stava facendo, e di essersene andata senza aspettarmi, dimostrando in tal modo di non essere interessata a conoscermi.

Tornavo a casa furibonda.



Sarebbe occorso qualche anno perchè mi riconciliassi, senza riserve, con la nonna che non avevo mai conosciuto

domenica 7 marzo 2010

Rolando Rambaldo (di M.Antonietta-Fiordistella)

Quand’ero piccola, avevo uno zio giovane e simpatico che si chiamava Rolando Rambaldo. Giocava molto con me, mi portava a passeggio e mi insegnò a non aver paura ad andare a cavallo. Anche ora ho uno zio, sempre lo stesso, anzianotto e brontolone, che continua a chiamarsi Rolando Rambaldo In genere, nelle famiglie, si tramandano i nomi bislacchi per non perdere la buona abitudine di creare qualche disagio educativo e formativo ai giovani virgulti: le difficoltà temprano, e chiamarsi in modo strambo irrobustisce lo spirito. Mio zio, infatti, è sempre stato molto robusto. Fu mio nonno ad imporgli il nome, nonostante la nonna lo avesse minacciato di arsenico nei maccheroni.Accadde forse per riguardo verso qualche antenato meritevole? O in odore di santità? O simpaticamente smandrappato? No.




Fu in ricordo di un cavallo.

Di un cavallo che fu inseparabile compagno del nonno, sottufficiale di cavalleria nella prima guerra mondiale.Di un cavallo che fu protagonista della conquista di Gorizia e della difesa della linea del Piave. Di un cavallo che fu sacrificato dal nonno, nel momento di massima diffusione della spagnola fra i suoi soldati, per dare ad ognuno di loro qualche scodella di brodo che ne alleviasse le sofferenze. Il nonno e il suo cavallo salvarono non poche vite umane.Il nonno non dimenticò mai il suo cavallo e, dopo aver onorato il padre e il suocero imponendo al primo figlio maschio, mio padre, i loro rispettivi nomi, onorò il suo cavallo imponendone il nome al secondogenito maschio, ad imperitura memoria.

Mio zio, comunque, si è sempre fatto chiamare Rol.

martedì 2 marzo 2010

quando io eo piccolo e annulliamo la distanza (nota di Enrico Bosisio)

ref=ts ... La realizzazione del Libro di Racconti “Quando io ero piccolo” è un progetto bellissimo perché in esso convergono due obiettivi particolarmente attraenti: creare un’opera ricca di sentimenti, di emozioni e di serenità dei bambini che siamo stati, un patrimonio da condividere con i nostri figli e far conoscere e sostenere i progetti di un’Associazione come Annulliamo la Distanza che opera da anni a favore dei Bambini eritrei per creare alcune condizioni di base per un’infanzia serena, quell’infanzia serena che si ritrova in moltissimi di questi raccontirg - opera da oltre 10 anni a favore dei bambini eritrei con progetti concreti in ambino sanitario ed educativo, collaborando con le istituzioni eritree e con l’appoggio di istituzioni pubbliche e private italiane.


Il progetto più recente su cui sono oggi concentrati i nostri sforzi è “Camminiamo insieme” progetto di ortopedia pediatrica che sarà realizzato in collaborazione con l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, L'Ospedale Halibet di Asmara e il Ministero della Sanità del Governo Eritreo

L’obiettivo è curare le principali malformazioni ortopediche dei bambini in tenera età, mettendo a disposizione del personale medico locale attrezzature semplici ma soprattutto competenze e formazione sul campo per renderli autonomi. Il progetto si articolerà su almeno 4 spedizioni a partire da giugno 2010. Si prevede durante le 4 spedizioni di curare oltre 150 bambini, sottoponendone a intervento chirurgico circa il 60%, in affiancamento a ortopedici eritrei http://www.annulliamoladis. /camminiamo-insieme

A questo progetto vogliamo dedicare la collaborazione nascente tra Annulliamo la Distanza e lo stupendo Gruppo “Quando io ero piccolo”

Insieme possiamo fare piccole-grandi cose.























http://www.annulliamoladis






http://www.annulliamoladis

















http://www.annulliamoladis

lunedì 1 marzo 2010

Patrizio (di Fiordistella)

Quand'ero piccola, abitavo a Voghera, in strada Torrazza Coste.



Oltre il cancello di casa mia, e al di là della via che ci divideva, c'era una stradina che conduceva ad una piccola borgata, chiamata Casa Tossa. Gli abitanti saranno stati una ventina in tutto e, fra essi, c'era Patrizio. Patrizio aveva la mia età e, dunque, non superava i quattro anni. Era bruno, occhi scuri, esilino, erre moscia. Anch'io avevo quattro anni, ed ero bionda, occhi azzurri, robustina, erre moscia.Ero sempre appiccicata al cancello poiché, non avendo, allora, fratelli o sorelle con cui malmenarmi, dovevo pur passare il tempo, e Mustafà, a volte, aveva altro da fare. Guardavo passare le rare macchine, salutavo le donne che pedalavano frettolose, e aspettavo Patrizio. Lo aspettavo ogni giorno, dal mattino in cui, giunto con la mamma al termine della sua stradina, e incurante delle eventuali automobili che si fossero trovate a passare sulla strada che ci divideva, si fiondò contro il mio cancello e buttò in cortile una manciata di caramelle mezzo scartocciate. Io stavo mangiando pane e marmellata e interpretai il gesto come un atto di aggressione: le raccolsi e gliele rilanciai, urlando qualcosa di poco carino. Lui fece una faccetta sconsolata e si girò per andarsene. Allora compresi le nobili intenzioni e lo richiamai per ringraziarlo. Ho sempre odiato i lunghi discorsi e, a quattro anni, non si è certo abili oratori. Dunque, mi sembrò più sbrigativo prenderlo per il collo, attraverso le sbarre di ferro del cancello, e sbaciucchiarlo sulla faccia. Non prima di aver addentato un altro morso di pane. Così, anche lui poté apprezzare la marmellata di albicocche della nonna. Da allora, ci vedemmo e ci baciammo ogni giorno, per tutta l'estate. Un giorno di settembre, in pieno periodo di vendemmia, una donna che andava in bicicletta verso le colline dell'Oltrepò a raccogliere l'uva, rallentò di fronte a noi due che ci stavamo baciando attraverso il cancello ed esclamò: " Oh! Varda lì, i murusei! ( Oh! Guarda lì, i fidanzatini!)". E lo disse con una tale malizia nella voce da farci vergognare come ladri. Io corsi in casa e Patrizio rimase in piedi, oltre il cancello, con la sua mamma, per una manciata di secondi. Poi tornò a casa e, da quel giorno, non ci baciammo più. Ci vedevamo, parlottavamo, ci scambiavamo regalini attraverso il cancello. Ma non ci baciammo più. Dopo un paio di mesi, Patrizio traslocò. E non lo vidi più.